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Un canto per Edda

​

- Ti cullerò con notti senza luna

- T’alleverò con strida di gabbiani

- Ti nutrirò di giorni senza sole


 

Prima cantica [1]

 

 

 

 

Canto I°

 

Ritornano, gli eroi [2]. E portano spoglie nemiche.

Hanno stelle negli occhi e nell'anima il mare.

Da tempo li attende sul molo un popolo muto.

Che, muto, ora ai muti cadaveri è volto.

 

- Quei morti! Chi sono, fratelli?

​

- Nemici. E perirono!

Inghiottirono flutti. E ora giacciono vinti

su assi di conchiglie e di sale.

Perirono! Ché alte le vele veloci non hanno

levate. Ah, stolti!

Dalle nostre lance squartati

agl'ignari già empiva Nettuno

le viscere buie con colpi di mare.

 

- Ora voi buttateli ai pesci

con rito di sangue e di gloria.

 

 

(coro)

Ah, non ancora!

Ahimè!

Non ancora

avranno gli squali il banchetto.

Ché già col favore di Bòrea i vinti nemici

ora stringono remi veloci.

 

Irsute le chiome che fluttuano al vento.

E vengono.

Vengono.

 

Irsute le chiome e ardite

ne la bianca bruma.

 

Giungeranno. Riprenderanno i morti

corpi dei loro compagni.

Con rosso clangore di ferro.

 

 

Scruta la luna ogni colpo di remo.

Ascolta la luna ogni grido. E vengono.

Vengono.

 

Che si fermi il tempo, si fermi.

Ascolti degli eroi la preghiera.

Ch’è l’ultima, prima d'essere uccisi.

 

Vengono,

vengono. Sorgete. Son qui. Alle porte.

Son cento. Son mille.

Or più non pregate.

Son qui.

 

 

 

Canto II°

 

Entrarono, i nemici.

A fiumi varcaron le mura.

Eran cento, eran mille.

 

E una bimba [3]

una sola

scampò.

 

Poi partirono, infine. E ogni grido cessò.

Solo il vento gemeva

con ansito eguale.

 

Ma la notte rapprende ogni pianto,

e materna lo veste di mare.

Materna alla bimba

è l’insonne sua nenia:

 

(coro)

- Ti cullerò con notti senza luna

- T’alleverò con strida di gabbiani

- Ti nutrirò di giorni senza sole

 

 

Camminò la bimba, decorato il petto di conchiglie

Camminò, chiamata da canti di sirene.

 

Non v’eran erbe, né fiori

Non sentieri o capanne.

Solo mare vi era, e la brezza gelata.

 

Camminò, decorato il petto di conchiglie.

Camminò, chiamata da canti di sirene.

Ignara camminò fino alla luce [4].

 

Là vide cose che il buio non sapeva

Barche capanne donne senza coda.

Là ascoltò parole senza canto.

 

Edda - le gridarono - va via!

Mai noi udimmo bimbe senza voce.

Mai noi vedemmo squame sulla pelle.

 

 

(coro)

Una bimba, una sola, scampò.

Una bimba, una sola.

 

La notte la vestì di sapienza.

Il giorno di mute parole.

E nell’immane silenzio del cielo

una bimba le mute parole ascoltò.

 

Una terra lontana di luce accecata

attendeva.

Da lontano il cuore caldo dei flutti

la chiamava al solare cammino.

 

Dalla gran meta stordita, fu sorda a ogni cosa.

 

Fu sorda allo scherno dei compagni

A lei non risero i pesci né le notti

Non ebbe il canto più delle sirene

Non del vento il gemito o il richiamo.

 

A tal fucina il suo animo indurì.

E il forte ingegno.

E si nutrì

    nella radente luce del giorno.

E nella notte eterna

Rabbrividì la luna.

 

Il cuore dei flutti chiamava da lontano.

A lui rispose la sua lingua muta.

E muto lo sguardo volse al popolo raccolto.

Appresero i guerrieri il suo silenzio

il silenzio prode d'un’erma condottiera.

 

 

 

 

 

Canto III°

 

Erano uomini dai capelli di fuoco.

Eran Dei dalla pelle di luna.

Remavan con occhi di cielo.

Volavano sui ghiacci notturni.

Edda li guidava.

Li guidava nel vento. Alla volta del sole [5].

 

Sul mare vedeva l'Antenato [6].

I suoi occhi miravan l'Invisibile.

Egli era ovunque. Sulle scogliere, sui flutti,

sulle nubi di Bòrea veloci.

E la voce dell’avo era possente.

Una voce possente e senza suono.

 

La sua voce possente e senza suono

da le meridiane foreste della Scizia

chiamava. Là dove comincia il sole.

Là dov’Odino appare nell'azzurro.

 

Erano uomini dai capelli di fuoco.

Remavano con occhi di cielo.

Venivano dai ghiacci.

Edda la muta era con loro.

 

Con loro oltre le rupi scizie

Con loro fino ai caldi mari.

 

 

(coro)

Oro che gemi nel profondo grembo.

Fuoco che splendi nella nuda spada.

Serpente avvolto nel più buio mondo.

Ora cessate.

 

Essi son giunti all’aride pianure

dove splendono parole nel gran sole.

Segreto immane è la parola stessa.

Arde di luce nel suo cielo terso.

Scorre veloce come un gaio rio.

O lenta scorre come un grande fiume.

 

Celeste è la parola nel gran sole.

Ma come dirla anche lei, orba di voce?

 

Edda si toccò allora il viso

e muta pianse.

 

 

Vedeva nel sole uomini sapienti,

che liberavan dai cocci le parole [7].

E le udiva la gente, come fosser vive.

Capì che le parole eran potenti e potevano

proteggere dal male.

Ma non domate portavano sciagura.

 

Fu allora!

Fu allora che per incanto lei parlò.

E poté legger cocci dai color dell'oro

e veder i tempi fino alla lor fine [8].

 

Ma quando seppe delle stagioni i fati

si toccò allora il viso e muta pianse.

 

Comprese i tempi fino alla lor fine

che l’Antenato dentro lei dettò.

Li dettò nella lingua ch’era sua.

Una lingua - diceva - capace di salvezza [9].

 

Cantò l'origine del mondo, e la storia di poi.

Poi ch’eran cose che lui tutte sapeva.

 

Ordinò di salvare la sua lingua,

e sotto il sole di calce

conservare le tracce dei norreni,

non disperder la forza degli antichi.

 

Così l'Antenato in Edda cantò,

silenzïoso.

 

Cantò l’origine del mondo e il primo uomo.

E prima ancora, il principiar del tempo.

La prima volta che splendette il sole.

Quando la terra si coprì di fronde

E verghe d'oro nacquero nei campi.

Quando s'avvolse il serpente intorno al mondo [10].

E crebbero l'armi sui campi abbandonati.

Quando i fratelli uccisero i fratelli.

 

Questo Edda cantò nella gran piana [11]

e tutti l’udirono nel grande mezzogiorno.

 

Finché la sua voce fu infida ai potenti.

E un grande rogo tosto fu approntato.

Un grande rogo per Edda l'infedele.

 

 

 

 

Canto IV°

 

Di nuovo fuggì.

Di nuovo per salvare la sua lingua.

Di nuovo col favore di Bòrea verso il buio [12].

 

Erano uomini dai capelli di fuoco.

Lasciarono i deserti.

Remarono con occhi di cielo.

Volarono sui ghiacci.

Edda, tornata muta, li guidava.

Notti di gelo li attendevano.

E giorni di barbarie.

   

Nei ghiacci ritrovò chi era restato:

erano femmine, nani e vecchi senza età.

 

Le giovani donne avean mozzato il seno

imbracciato l'arco e la faretra [13].

Volto lo sguardo ai ghiacci senza fine.

 

Nessun uomo ebbe un caldo abbraccio.

Nessun uomo riebbe la sua sposa.

 

Solo il sangue scorreva.

Scorreva dalla barbarie nuda

e le sbranate vittime eran fecondi giovinetti.

 

Sacerdotesse crudeli s'erano fatte

le dolci schiave di un tempo,

e desolata era la terra, e opaco l'oro.

 

E quando venne il Guardiano e alto gridò

Allora il serpente dell’antico mondo

Inghiottì la terra

E dette la spada frutti copïosi.

 

Più non galleggiava il bosco e

i cavalli stanchi venivano inghiottiti.

Alberi erano stati un tempo

le irremote pietre in fondo al mare.

 

Sterminavano i lupi e gli altri mostri

Gli dei terragni, ed i giganti.

Inghiottita dal mare, arsa dal fuoco

La terra di luna ammutolì.

Crepitarono di gelo le capanne

Deserte e nude si fecero le terre

E l'ombre  mute dell'antico grido:

Orrore!

 

(A rompere i sacrifici umani fu un flagello.

Le carni putridivano di peste. 

Carnefici, e vittime parate al sacrificio,

furono colti dallo stesso male)

 

Ma al muto grido un giovane rispose,

un giovine edotto d'ogni arborea specie [14].

Gli era compagna un'aura solenne

che le Amazzoni avevano temuta.

Veniva anch'egli dal lontano Oriente

per strade, terre e ragioni misteriose.

Aveva appreso segrete medicine

in templi ai bordi d’aridi deserti.

 

Una notte Edda lo sognò.

Sognò il giovane medico al suo fianco.

 

Egli giaceva sotto un albero maestoso.

Sul capo bruno stava il buon serpente

avvolto intorno ad un fiorito ramo.

Un serpente che salva dalla peste

un ramo pieno di bacche prezïose [15].

 

Da quel ramo il suo popolo fu salvo.

Ma non era la peste il flagello più severo.

Erano il gelo l'ombra il sangue

a far desolata la terra e opaco l'oro.

 

A pietà si mosse infine il cielo

e ad Edda mandò i suoi chiari segni.

 

Un lampo un tuono un livido chiarore.

Un tempio aperto.

Una torcia accesa.

Una voce.

"Parti.

Diffondi la luce sulla terra".

 

Canto V°

 

Di nuovo camminarono i rinati.

Di nuovo verso il sole.

Nell'anima il mare risplendette.

Ogni stella negli occhi s’azzurrò.

Il giovane medico era a lor di guida[16].

 

Esultavano.

 

Foreste fiumi deserti.

Notti giorni stagioni.

Esultavano. Edda la veggente era con loro.

 

Camminarono i rinati.

Fino alla nuova terra, al focolare nuovo.

Finalmente

presso i guerrieri le radiose spose.

 

Tracciaron gli anziani

d'India di Persia le regioni i cieli

De l'asciutta radura, il centro, il fuoco.

 

(Riposarono infine, deposto il pesante fardello. Aveano il mare negli occhi e la pelle di neve. Dal bosco spiava i venuti un popolo nero. Che portano gli uomini nuovi? La lancia del sangue nostro assetata? Quale lento consiglio daranno gli anziani? Sorprenderli nel sonno più fondo?)

 

(Ma sorge improvvisa una bianca magia: un fresco getto zampilla dall’arido deserto. Guarisce i mali il bianco condottiero ed i nemici incanta.)

 

(Accolse la tenda aria l’altipiano sassoso. E furono ricche le stagioni, colme di messi. Nelle alte notti, sotto le stelle riposarono i giusti attorno al fuoco)

 

Ma una notte chiesero a lei canti lontani

e ogni notte, e ancora, fino all’ultima luna [17].

 

E come neve un dolore scese sulla pelle.

 

Nell’estremo fuoco dei bivacchi

riluttanti

al suo popolo muto Edda cantò.

 

E come neve un dolore scese sulla pelle.

 

 

Da lei veggente i tempi tutti

all’accolta gente furono svelati.

Cantò dei giorni tutti, delle notti future.

 

Per lungo tempo si udì una nenia dolce.

E dondolava il capo chi ascoltava.

 

Ma poi più alta levò Edda la voce.

Sol allora contiquere omnes.

Intetique ora tenebant [18].

 

E mai

più terribili visioni

raggelarono un popolo in ascolto.

 

 

[1] Il manoscritto originale dell’Edda poetica o Völuspà (Codex Regius risalente forse al XIII secolo) fu restituito nel 1971 al governo islandese da Re Federico IX di Danimarca.  Quel paese custodiva il prezioso documento dal 1662. Ora lo scritto ha stanza a Reykjavìk. La Edda della leggenda nordica è una veggente che nella Völuspà (da Völu, sibilla, o colei che vede, e spà profezia) racconta l’origine del mondo. Questa cantica, La notte e i giorni, narra di Edda la vita immaginaria e le immaginarie migrazioni fra un pagano e profondissimo nord (una Scizia immersa in ghiacci eterni) e gli altipiani solari della Persia.

 

[2] I guerrieri del villaggio di Edda ritornano da una battaglia navale vittoriosa, una delle tante fra clan dei popoli norreni. Le salme dei nemici uccisi sono portate in trofeo.

​

[3] La solitaria peregrinazione della futura veggente inizia qui, nella notte polare, in un villaggio dove il sangue, a fiumi sgorgato, subito al gelo rapprende.

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[4]  Il villaggio nativo di Edda è qui un luogo fantastico, presente solo all’inizio dei tempi umani, dove non vi era mai la piena luce. Edda camminerà verso sud fino a raggiungere il primo sperduto villaggio iperboreo, il più a nord fra quelli dove sorge il giorno.

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[5] Prima migrazione degli iperborei verso una terra che conosce la scrittura, segni vergati sulla terracotta. Vogliamo immaginare gli altipiani di Persia.

 

[6] Per Antenato si intenda il progenitore del popolo norreno. Colui che, stando nell’aldilà, secondo la leggenda conosce il futuro; colui col quale Edda è in contatto e da cui riceve la sapienza e la virtù divinatoria.

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[7] È il tempo dei primi grafi tracciati su ceramiche; i sacerdoti di quelle regioni conoscono la scrittura, sanno tradurre quei grafi in suoni, liberandoli così dalla terracotta.

 

[8] Edotta dall’Antenato Edda diviene capace di leggere e profetare.

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[9] L’invito è a narrare e scrivere in lingua norrena

 

[10] Riferimento all’Uroburo, il grande rotondo.

 

[11] Gli altipiani della Persia dove i sacerdoti mitraici la cercano per condannarla al rogo.

 

[12] Edda ritorna al villaggio della Scizia. Porta con sé un giovane medico dai caldi mari.

 

[13] Per la mancanza di uomini adulti e di rapporto maturo col maschio la donna era regredita allo stato di Amazzone. Crudelissime, le femmine del villaggio eseguivano sacrifici umani, immolando i giovani maschi, rimasti nel villaggio, non ancora iniziati alla guerra, con cui non sapevano avere rapporti di scambio e di cui si servivano solo per la riproduzione.

 

[14] Sotto le sembianze di Esculapio il dio Rama aveva seguito Edda nel suo viaggio verso la Scizia.

 

[15] Ramo di vischio attorno al quale è avvolto il serpente guaritore. Da qui il simbolo del caduceo, della medicina.

 

[16] Ora è Rama a portare il popolo verso l’India. Rama, il divino, capace di prodigi, di far zampillare acqua dal deserto.

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[17] Fino all’ultimo giorno della sua vita mortale.

 

[18] Tacquero tutti ed atteggiarono il loro viso all’ascolto. Il riferimento è a Virgilio, Eneide, canto secondo. Presso la reggia di Didone, Enea inizia il racconto terribile della caduta di Troia.

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