IN VIAGGIO... Opere e blog di Luciano Rossi
Luciano Rossi: nascita di un narratore
(Saggio di Giuseppe Massari, da Aurea Parma, dicembre 2009)
Luciano Rossi, austero cultore della Sociologia della Conoscenza e della Metodologia delle Scienze Umane, prima a Parma e poi a Urbino, ci aveva abituato per due decenni – dal 1980 al 2000 - a severe lezioni accademiche e dottorali, di cui vogliamo ricordare, scegliendo fra i tanti titoli, Una Metodologia per le Scienze umane del ‘79, Negazioni del ‘92, Psicodialettica del ‘99.
Ma proprio in quei due decenni maturava, nella sua vita intima, e di conseguenza anche universitaria, qualcosa di diverso. Maturava il romanzo, la narrativa. In due prove finora. Nel primo romanzo di Rossi, La scala di Shepard (Firenze, 2007), è accolta una vicenda interiore, esistenziale e quasi esoterica, della durata proprio di vent’anni, quei vent’anni, in cui i tre cursores, qui vitae lampada tradunt, correvano una frazione di staffetta dallo svolgimento temporale rigidissimo: 1980-2000. Il tutto per porre rimedio ad una condizione desolata: quella dell’assenza. Pochezza di beni, cessazione dei beni.
Ma anche Il Vento e la Legge (Firenze, 2008), la sua seconda prova, di poco successiva, un anno e mezzo circa, si rivolge a quest’assenza: e se nel primo romanzo a segnare l’infelicità era l’insoddisfazione per la mancata risposta del mondo in termini di nutrimento intellettuale, nel secondo le pur poche risorse, presenti nei momenti migliori, spariscono. E anche i rimedi all’assenza, che in Rossi, psicoterapeuta, non possono mai mancare, sono, nei due scritti, di diversa natura: fattivi, laboriosi, nel primo, dove la trasmissione della conoscenza, eroico streben, fa sì che lo scacco dell’individuo non sia anche lo scacco dell’umanità; sapiente attesa e riduzione dei bisogni infantili invece nel secondo, dove emerge chiaro l’apprezzamento cristiano per la bellezza della rinuncia e del sacrificio.
Ma parlavamo di quei vent’anni in cui la forma del suo scrivere è mutata. L’Autore si era mosso in quegli anni con rigore sempre all’interno dell’immenso mare gnoseologico, ma lambendone anche talora – coraggiosamente - i confini non tangibili, subliminali, dissolventisi a loro discrezione per riformarsi poi, e riapparire un po’ meno impertinenti, in spazi non euclidei dove l’ellisse, estremo ultimo simbolo del concreto è segno visibile dell’assenza.
Da oggi Luciano Rossi, nato, ma soprattutto vivente, sui primi lievi declivi che preludono a quel sortilegio pietrificato che è Torrechiara, appartiene ad una non folta schiera di scrittori che, da dove risiedono, fortunatamente contribuiscono a rendere impraticabili, o a distruggerli proprio, i vecchi consolidati, correnti e pur indispensabili sentieri ermeneutici percorsi fino a quel momento da chi era costretto – bisogna pur vivere – sia a interpretare sia a collocare sul piano delimitato, appunto, da familiari assi cartesiani l’operazione della scrittura.
E quando questa rivoluzione avviene – in realtà poche volte – ci troviamo di fronte ad Autori autentici che mutano la nostra stessa abituale pratica di scrittura o lettura. Così che Luciano Rossi usa La scala di Shepard per inventare e circoscrivere un territorio - ma hic sunt leones - all’interno del quale nessuno, che vorrà scrivere o meglio che vorrà leggere un romanzo, potrà evitare in futuro di entrare. Un territorio che nessuno potrà ignorare. Un lembo di spazio letterario accidentato, impervio e ruinato, dove poter riassemblare schegge e sfridi di precedenti lavorazioni, imperfette e destinate a trasformare la materia narrativa, o i resti laboratoriali della propria officina, e trasformarli in manufatti di trasparente orfica purezza, indifferenti sia all’alterità, sia alla sovrapponibilità con il più ingombrante imperativo ontologico.
Se è vero dunque che questo scritto di Luciano Rossi muta la nostra pratica di scrittori o lettori, se è vero che non si potrà in futuro prescindere da questa sua opera, siamo allora di fronte a un romanzo che segna una svolta, sia dal punto di vista strutturale sia dal punto stilistico. È del resto pressappoco da un quarto di secolo che non appariva sulla scena letteraria un’opera così nuova.
Per trovare delle assonanze con un romanzo di questa forza innovativa ci dobbiamo di necessità rifare ad autori non proprio vicini nel tempo. Mi proverò in ogni modo a fare i nomi di alcuni antesignani che riassumono il clima culturale dal quale La scala di Shepard proviene. Dico questo non solo per valorizzare l’opera di Rossi, ma per dire che nessuno scrive improvvisamente cose che mai prima erano state scritte: c’è sempre una preparazione culturale da cui nasce un’opera d’arte. Osservo spesso, infatti, come autori minori precedano, preparino e giustifichino l’opera d’arte che poi dominerà tutto un periodo.
Quando vidi per la prima volta il Museo d’Orsay notai che, prima degli impressionisti, c’era stata per circa vent’anni, ossia pressappoco dal 1840 al 1860, tutta una serie di pittori, sconosciuti ai più, che aveva-no preparato un avvicinamento all’impressionismo, movimento poderoso che, a partire da quelle minori premesse, non poteva poi che sfociare in un così alto esito.
Non è dunque, ripeto, per fare degli accostamenti, ma quando lessi per la prima volta La scala di Shepard mi vennero in mente Gli indifferenti di Moravia, opera che è del 1929. Perché questo? Perché nei due romanzi – negli Indifferenti e ne La scala di Shepard - c’è lo stesso clima, la stessa evanescenza, la stessa trasparenza, lo stesso velo.
C’è poi un altro romanzo, un altro autore, che potrebbe rappresentare, anch’esso, la matrice su cui, inconsapevolmente, è stato fuso il piombo de La scala di Shepard. Ed è Contropassato prossimo di Guido Morselli, autore nato nel 1912 e morto nel ‘73, suicida perché nessun editore, e anche questo ci dice qualcosa, volle pubblicare le sue opere. Romanzo, dunque, postumo: precisamente del 1975. È vero, naturalmente, che anche altri libri di Morselli, e li ricorderò più avanti, possono venir evocati a proposito del nostro discorso, ma lo possono solo per lo svolgimento narrativo, per l’impianto. Invece, di Contropassato prossimo, ritroviamo in Shepard anche il clima filosofico. Il romanzo di Morselli è un esempio di storia controfattuale, ossia di storia fatta con i “se”; di storia quindi che si pone nel campo dell’assurdo e dell’arbitrio più assoluto. Essa prende in esame l’offensiva degli austriaci a Caporetto e si chiede cosa sarebbe accaduto “se” quell’offensiva avesse avuto successo: il panorama storico successivo ne sarebbe rimasto sconvolto.
Gli indifferenti era del ‘29. Questo di Morselli è del ‘75. C’è, in mezzo, fra i due, tutto un processo di avvicinamento a La scala di Shepard. Sembra annusare poi la stessa aria nell’80 anche Pier Vittorio Tondelli con Altri libertini. Qui Tondelli mette sulla pagina un linguaggio esplosivo, sconvolgente. Dopo aver letto Altri libertini ci si sarebbe davvero potuto chiedere come mai fino a quel momento la gente avesse scritto in altro modo che non fosse quello, quando allora apparve chiaro che i romanzi si dovevano scrivere così, come fa Tondelli, tanto dirompente è la sua logica.
Ci sono poi i personaggi. Accosto sempre, nella mia mente, La scala di Shepard a qualcosa che si vuole esprimere, a una materia informe, alla Sagra strawinskiana, a qualcosa che si sta formando, a un caos che tenta di uscire dal caos, e che invece resta caotico e non si capisce se soffra a restare tale o se consideri questo suo stato come normale o congeniale. È questo il dramma, senza pietà, de La scala di Shepard.
Dov’è allora la sua poesia? È qui, in questo scontro, in quei personaggi, scolpiti in modo quasi tattile, materico: personaggi che incarnano qualcuno che vuol gridare, che vuol essere e non riesce ad essere. E allora cosa è che mi viene in mente? Mi viene in mente il Gregor Samsa de Le metamorfosi di Kafka, che prima di accorgersi d’essere mutato, vuol chiamare e si rende conto che non gli esce la voce, che non riesce a parlare. È il grido inesploso, l’impossibilità di esprimersi. Ecco perché La scala di Shepard, anche se è un fiore solitario, non nasce dal nulla. E gli esempi letterari potrebbero essere ancora parecchi. Ma anche da fuori della letteratura giungono richiami.
Nel campo della pittura c’è anzitutto il Masaccio del Carmine, con la sua Cacciata di Adamo ed Eva, che mi sembra l’accostamento più pertinente ai personaggi di Rossi. In questo affresco si vedono i due, condannati a vivere, che gridano la loro disperazione, ma non si sente niente, e non perché in pittura non c’è alcuna possibilità sonora, ma perché si vede proprio che non esce nulla dalla loro bocca, anche se è spalancata. Si vede benissimo che il loro è un grido strozzato. A significare anche l’insensibilità di Dio al loro bisogno, alla loro voce.
Per restare ancora nel campo della pittura, come passare sotto silenzio il Guido Reni de La strage degli innocenti, con quelle bocche aperte delle mamme e dei bambini da cui esce solo una tragedia immane, ma non l’espressione di questa tragedia?
Naturalmente è d’obbligo ricordare anche – da ciò non ci si può esimere, anche se si vorrebbe essere più originali - L’urlo di Munch, troppo calzante per poterne prescindere.
Poi, dopo quelli letterari e pittorici, non possono mancare gli archetipi musicali, come il già citato Sacre. Ma ce n’è un altro che vorrei ricordare ed è John Cage. Quindi anche pittura e musica avvolgono La scala di Shepard e la letteratura tutta, che non vive isolata, perché l’arte è una sola, quale che sia il linguaggio da essa usato.
E non possiamo dimenticare neppure la filosofia. A somiglianza di Kierkegaard, per esempio, possiamo scorgere ne La scala di Shepard la presenza di personaggi senza speranza e senza disperazione. Del cristianesimo manca però in Kierkegaard l’elemento essenziale, che per l’arte non è quello della redenzione, ma il sentimento della sofferenza e quindi della pietà e dell’amore. Non ho parlato di sofferenza, bensì di sentimento della sofferenza, che qui ne La scala di Shepard, come in Kierkegaard, manca del tutto. Per cui c’è ancora più sofferenza.
Se guardiamo questo libro e i suoi personaggi, dobbiamo riconoscere che siamo di fronte a un romanzo vero; il suo canone è indubitabilmente quello del romanzo; gli incontri, gli accorgimenti narrativi, la successione dei tempi sono quelli del romanzo. Non troveremo ne La scala di Shepard una serie di osservazioni orizzontali, metafisiche; c’è invece una vicenda, che si svolge in un tempo storico e in ambiente vero, con oggetti, con cose: i caffè, le università, le strade.
La scala di Shepard è come una ferita dalla quale non sgorga sangue, ma un umore incolore e denso come da un taglio di Fontana. Cito i tagli di Fontana anche per un secondo motivo, per polemizzare con chi dice che l’arte contemporanea non ha radici e non parla. È vero: forse non parla, però urla. Magari senza suono, ma urla. La pittura è anche adatta per sua natura a rappresentare urla senza voce, come nel Masaccio del Carmine. Masaccio mi è venuto in mente anche perché ho pensato al luogo in cui è collocato questo dipinto. Sta nella Chiesa antistante al piazzale del Carmine, appunto, che è un piazzale diverso dai piazzali tipici di Firenze che sono di solito belli, aggraziati, pieni di paesaggio toscano anche in città. Nel piazzale del Carmine invece ci sono alberelli stenti, c’è polvere, per cui quando si alza il vento la polvere avvolge tutto il piazzale. È un luogo squallido, brutto, trascurato. Ed è anche il piazzale dove Pratolini - vedete che tutto si associa - nel romanzo Un eroe del nostro tempo immagina la fucilazione del padre del fascista.
Mi rendo conto che può sembrare che io costruisca dei contesti ad arte e poi ci forzi dentro La scala di Shepard. Non è così. È vero il contrario: è stata quest’ultima opera ad allargarmi la mente e a portarmi tutte queste cose.
Quindi i contesti, si diceva. E allora facciamoli pure questi nomi. C’è The waste land, la terra desolata di Eliot, riferimento ovvio per Rossi, che di quel poemetto è diuturno cultore. E poi c’è Joyce. Però quale Joyce? Quello dell’Ulisse? Potrebbe essere anche quello dell’Ulisse, perché c’è il peregrinare e nella Scala di Shepard vi è chiaro il tema del viaggio, anzi vi è dominante. Ma io non voglio fare ora questo tipo di accostamenti. Intendo fare accostamenti di odori, di clima, di sensazioni e allora è il Joyce dei Dubliners a esser presente in Rossi.
Un tema che andrebbe poi sviluppato è quello del dolore: dietro La scala di Shepard non ci sono né Aristotele né Tommaso. E se l’unica via di fuga è il misticismo, la metafisica del dolore, la surrettizzazione del dolore fino a renderlo una lastra fredda, o una ferita da cui non sgorga sangue, si deve dire che questo dolore è talmente ampio, assoluto, è una lastra così estesa, infinita, che non è più nemmeno dolore, perché solo il semplice dolore circoscritto è una cosa umana, mentre un dolore infinito non è più nemmeno umanamente percepibile. Quindi per Shepard si deve ricominciare a ragionare da Platone e da Agostino, l’Agostino delle Confessioni.
E fare questo è come ritornare sui propri passi cancellando a ritroso le orme del cammino compiuto, è come procedere nella conoscenza senza l’ausilio della storia, distruggendo la storia. È forse qui, in questo furore freddo, che si cela il pathos, la poesia. Perché, in fondo, dov’è la poesia? È in questa ascesa del pathos. C’è il dolore del non provar dolore, perché il dolore si vorrebbe provarlo, si vorrebbe quel dolore che ci conferma d’essere vivi, umani. Se uno è ferito e non sente dolore, vuol dire che non è un umano. E nel libro questo dolore viene cercato, ma ancora non c’è, ancora questa condizione non viene raggiunta. È questo il pathos, questa la poesia. La disperazione qui non nasce dal non avere qualcosa, non nasce dal desiderio di possedere, ma dal non voler possedere. È una rivolta contro la propria abulia, contro la propria indifferenza. Ed ecco che il richiamo agli Indifferenti non era fatto a caso. Non debbo, e non vorrei, restare indifferente, ma non posso che essere indifferente. Riesco solo ad essere indifferente. In questo sta la disperazione, nel non voler avere, in questo peccato d’orgoglio. Punito con la cacciata dall’Eden. Ecco ancora Masaccio; le immagini si rincorrono. Ma quelle bocche mute di Firenze urlano tutta la paura dell’escluso, di chi è straniero a una creazione assurda, dell’étranger; e questo è il terzo tema: c’è l’indifferenza, c’è il dolore dell’indifferenza, poi c’è la paura, lo sgomento, il vuoto, il buio. Quindi da un romanzo, che apparentemente vuol essere senza sangue, sortisce l’angoscia, il terrore di essere mortale, anzi la scoperta di essere morente.
Poi c’è da fare un’altra osservazione, su cui tornerò più avanti. È vero che Rossi è di Parma, che è nato e vive a Parma, ma è anche vero che ha lavorato via, ha esperienze non provinciali, è stato in grandi Università, fuori da qui. Però, pur senza ricorrere al genius loci, senza ricorrere a quel contesto che prima non ho citato, occorre pur sempre non dimenticare quello studio che in questo caso mi ha aiutato molto, lo studio di Carlo Dionisotti, Geografia e storia della letteratura italiana. Geografia e storia. Come dire che ogni luogo fisico ha un suo modo di esprimersi. C’è dunque un richiamo generale del territorio, a cui anche Rossi non può sfuggire. Sul piano letterario, naturalmente. Allora vorrei accostare Rossi, magari per contrasto, ai due scrittori di Parma che più gli si addicono: Mario Colombi Guidotti ed Emilio Zucchi. Perché questo accostamento? Perché questi due?
In Colombi Guidotti e Zucchi c’è un’estenuazione dolce, un tiepido torpore, quella convalescenza dopo la malattia, convalescenza che è estenuazione ma anche rinascita, mentre da Rossi dopo la malattia, e il romanzo è una malattia, si sente smarrito, non si sente riaccompagnato a questa vita. Questa sensazione dolce della lenta rinascita a questo mondo manca. Da Rossi ti senti invece accompagnato altrove. Un altrove che ha ben poco di materiale. La dislocazione del dopo, dell’altrove, non obbedisce a parametri di spazio e di tempo. L’altrove è una vita parallela che agita o logora lentamente le nostre pareti. Il massimo dell’astrazione, l’estrema metafora a cui potrei ricondurlo è quella dell’ "A Mosca! a Mosca!" delle Tre sorelle - e qui ci sarebbe quindi Cecov da citare, non tutto Cecov, ma buona parte, quello de Il giardino dei ciliegi per esempio – dove c’è un urlo liberatorio, mentre nella Scala non c’è. Nella Scala di Shepard non c’è più nessun urlo – dopo tanto ascolto negato dagli dei - ma la perspicacia razionale del rimedio umano, la perspicacia, che è più forte degli dei. La perspicacia che ti fa consegnare il testimone della conoscenza a fine corsa. Il singolo perde la sua battaglia, e anche il dio la perde. A vincerla invece è l’umanità nel suo complesso. Per il suo tramite, per la cooperazione degli uomini, “il grande spettacolo continua”.
E strutturalmente questo romanzo com’è?
È un’opera che ha una sua struttura, un impianto narrativo che mi ricorda quello di due libri che ho molto amato. Uno è Le voyage autour de ma chambre, dove la camera è lo spazio ristretto in cui accade tutto. Se invece ci ponessimo sul piano filosofico si potrebbe pensare alle Porte chiuse di Sartre. Se dovessimo collocare il romanzo in un’inquadratura, come usavano i pittori del 700, che facevano fare la quadratura prima di dipingere, dovremmo scegliere quella dell’esistenzialismo. Gli ismi ovviamente si sprecano, e allora più che pensare ai filosofi esistenzialisti in senso stretto – uno per tutti Jaspers - penserei piuttosto a uno che l’esistenzialismo ha tradotto in fatti, in cose. Parlo naturalmente di Sartre.
L’altro romanzo che mi piace molto, e ne ho fatto cenno prima, è l’Ulisse con la giornata di Leopold Bloom. Anche Leopold fa tutto, dice tutto, in un solo giorno. Quindi la struttura narrativa, l’impianto narrativo, la tecnica narrativa è quella che incenerisce l’immanenza, sottraendola al tempo. Non è una saga che dura degli anni. È qualcosa di molto interiorizzato, tanto è vero che può svolgersi in un tempo e in uno spa-zio ristrettissimi. In quel giorno e in quella stanza c’è però l’universo.
Il dolore inespresso, e la sofferenza per non riuscire ad esprimerlo, da cui deriva la discesa agli inferi, ci richiamano, oltre che alla Metamorfosi di Kafka – di cui già si è detto - anche a quelle classiche, e più illustri metamorfosi, quelle di Ovidio. In esse la metamorfosi diventa reale e non si ha più la possibilità di ritornare indietro alla condizione di prima. Allora la mente corre ad Atteone trasformato in cervo. Atteone vorrebbe, dice Ovidio, gridare – clamare libebat – ma non riesce a dire nulla. E cos’è che vorrebbe dire? – Actaeon ego sum, dominum conoscite vestrum – vorrebbe dire, ai cani che lo inseguono. – Ero il vostro padrone, sono il vostro padrone, riconoscetemi come padrone. Ma verba animo desunt: “riconoscetemi” vorrebbe dire il suo animo e non riesce. Ecco! Questi versi (III, 230-231) li vorrei mettere in testa al romanzo. Vorrei mettere in esergo questa epigrafe, questo clamare libebat e questo non riuscirci. Non riuscirci perché non si è più umani. E soprattutto non lo si è per gli altri. Atteone non percepisce intimamente se stesso come cervo, si sente ancora uomo, ancora padrone dei cani, ma per gli altri è ormai cervo, che i suoi cani sbraneranno. E allora come impedire che venga alla mente Pirandello?
I compagni di viaggio di Rossi a lui più vicini nel tempo sono, come ho detto, Tondelli, Morselli, e senza dubbio Moravia. Questo per dire che La scala di Shepard non nasce nel vuoto, è inserita fortemente nella cultura e nella letteratura italiane. Soprattutto gli è però compagno Pirandello. C’è, infatti, da sottolineare l’interpretazione testuale dell’impianto narrativo de La scala di Shepard, che continuo a considerare un libro molto importante, non nato a caso, ma pensato a lungo. Se dietro lo stile, la poesia, il modo di esprimersi, la forma di scrittura di Rossi – che abbiamo accostato a quelle pietre miliari di cui sopra (Moravia in primis) dalle quali parte tutto – c’è, più lontano nel tempo, anche Pirandello, è evidente che, per quanto riguarda l’impianto testuale come ambiente, come humus culturale e concezione del mondo, dobbiamo pensare invece alle coordinate crociane, per le quali la poesia non ha bisogno di nient’altro che di poesia per essere interpretata e capita, e così il romanzo non ha bisogno di nient’altro che di romanzo.
Un itinerario, quello a cui Rossi perviene, lucido, determinato, quasi crudele, pronto con ferocia al contrattacco. A tratti dolce, desolato e gonfio di scoramento. O meglio una marcia verso i bastioni del lirismo, nemico crudele e frastornante della contemplazione. Elogio del razionale dunque? No. Elogio della più pura letteratura, della poesia, e anche della più pura metafisica, ma con, all’interno, un tormento che la trasforma alla fine in un elogio della fisica quantistica, una delle gemme più abbaglianti del lirismo e del romanticismo. Così che questa operazione di scrittura, disperatamente - ma è il suo tratto umano - tende all’assoluto. Dopo il Nievo delle Confessioni, dopo lo strazio dei Malavoglia, l’inquietudine sottile degli Indifferenti e naturalmente quella di Svevo, e dopo i febbricitanti Libertini di Tondelli, questo tipo di scrittura approda al D’Annunzio rarefatto e romantico del Notturno. E a suo modo è replica e introiezione dell’altro grande romanzo, Il piacere, fra i pochissimi italiani dell’800-900, due, tre, forse quattro, che segnano la nostra “quasi recente” storia letteraria, e insieme - questa sì recente, anzi compagna d’ogni giorno - l’angoscia e male di vivere. Non che La scala di Shepard abbia attinenza di contenuti col Piacere o con gli altri, ma è letterariamente paragonabile a queste sei, sette punte del romanzo italiano. Il romanzo di Rossi segna allora oggi un punto fermo, rappresenta qualcosa che da qui in avanti gli scrittori dovranno cominciare a tenere presente. Dovranno cominciare a capire che bisogna scrivere come è scritta La scala di Shepard. Quando un libro segna una svolta così, nessuno potrà permettersi di ignorarlo. Così come nessun cultore del romanzo può permettersi oggi di non conoscere il Tristram Shandy o il Diderot di Jaques le fataliste di cui anche La Scala di Shepard mostra di non ignorare lo stile narrativo.
Certo la lingua usata, con mimesi involontaria, con introiezione inconsapevole, appare attinta da quell’infido e procelloso mare dei Tommaso Landolfi della Pietra lunare, dei Guido Morselli della Dissipatio H.G., dei Federico Tozzi delle Tre croci; ma la sua filosofia attinge anche, per l’assenza di disperazione, dal Sisifo di Camus, e per i percorsi paralleli, per i sentieri che si biforcano, da Borges; infine per il linguaggio dal Pasticciaccio di Gadda. Ma l’impianto generale è debitore soprattutto del Faust di Goethe che è l’opera a cui più d’ogni altra Shepard per tema si avvicina. La domanda di Faust a Mefistofele, la loro sfida o promessa, ha le stesse aspirazioni che pongono in tenzone – e in tensione narrativa - Fisi e Ismaele.
Questa somiglianza al Faust ci può ben far chiedere se Rossi è anche romantico. Perché ha anche consolazione, e addirittura anche esaltazione, e poi c’è in lui – lo ripeto ancora una volta - il grido dello strazio di vivere che non raggiunge nessuno, che non esce da bocca umana. O nessuno ti sente o ciò che la mente elabora non è intelligibile all’altro. La disperazione non è solo fisica: io grido e la voce non mi esce.
Ma poi c’è la forza che la poesia ha, anche emblematica, di pensiero, di convinzione, di razionalità. Si vorrebbe che non l’avesse, ma ce l’ha, la poesia, una forza razionale. Perché o nessuno ti sente o ciò che la tua mente elabora non è intellegibile all’altro. Sono gli altri che non ti capiscono o sei tu che non ti fai capire? Non c’è più soltanto l’eroe romantico – Alfieri, Foscolo, Leopardi – fiero della giustezza del suo dire; c’è un eroe consapevole che il mondo potrebbe non capire le sue parole. È, questo, un aspetto molto moderno: è lui, lo scrittore, o il suo personaggio, che ha perso il contatto con gli altri. È un concetto presente anche ne La Terra desolata.
La letteratura si prende però le sue rivincite e allora, consapevole o no, - e magari il nucleo narrativo vero è proprio questo - Rossi inventa e compone stati d’animo, azioni e svolgimenti con la loro brava origine, percorso, approdo per poi, con un irriverente – e Rossi in Shepard è irriverente - sberleffo o capriola, costruire pagine dove ciò che ci avvince è proprio il narrato, le parole, che finalmente trovano chi le ascolta, chi ne resta colpito, chi risponde, chi replica.
L’irriverenza di Rossi ricorda quella del pittore Gian Domenico Tiepolo, figlio del più famoso Giovan Battista, pittore irriverente pieno di sberleffi – anche malinconici e tristi - rivolti ovviamente al vecchio mondo. Da Gian Domenico Tiepolo nascerà poi tutta la pittura eversiva moderna.
Nella Scala di Shepard c’è poi da segnalare l’onnipresenza della coppia dialettica, quasi necessitata dalla scrittura, in modo che tutto si svolga nel dialogo e nella relazione, nel contraddittorio – in realtà verrà mostrato che è il personaggio che è scisso – e le varie opinioni vengono messe a capo di diversi soggetti, o figure interne, affinché nasca il confronto e con lui il romanzo. Questa necessità della coppia la ritroviamo in Morselli, col suo viaggio di Dissipatio HG, la ritroviamo nel Thomas Mann della Montagna incantata, con le figure di Lodovico Settembrini e Leo Naphta, che sono elementi differenziatisi da un’unità originaria, e che subito si costituiscono in un dialogo, da prima oppositivo, ma in realtà alla ricerca della conciliazione, parti separate che cercano - hegelianamente - l’unità, la sintesi, la coniunctio oppositorum. Cercano il tutto dell’origine dopo l’aufhebung, il separare per riunire. Una dicotomia frutto di lacerazione, una diaspora frutto dell’impossibilità del tutto a ricomprendere il tutto. Questo tutto che ha bisogno per esistere di sentirsi vivere sotto specie diverse. Finché il tutto rimane un monolite non c’è sensibilità, non c’è autocoscienza. Per sentirsi un tutto, per riconoscersi un tutto bisogna scindersi, differenziare le due parti dell’intero psichico: l’Io e l’Altro da sé. Finché non si scinde resta un tutto che non sa di sé, un’entità caotica, un’unità confusa. Un’unità che ancora non è la reductio ad unum. Operazione fatta per conoscersi, perché l’Io conosca l’Altro, prendere distanza dall’altra parte di sé per vedere meglio. Conoscersi per costruirsi come coscienza finale. Operazione, viaggio, cerchio che torna all’origine, ma non si chiude del tutto. È piuttosto spirale ascendente – eternamente ascendente - che cerchio: la coscienza iniziale e la coscienza finale sono diverse. Per esprimere questo concetto, nella Scala di Shepard c’è appunto una parte, la quinta, che titola Il cerchio non è rotondo.
Non voglio però, e non posso, soprattutto non debbo, dimenticare, da ultimo, di sottolineare la felicità narrativa dei romanzi di Rossi. Sarebbero possibili tante estrapolazioni di brani felici che potrebbero ricordarci Paisiello e Rossini. Dopo quanto detto dobbiamo riconoscere però a questo punto che si tratta di un romanzo strano, perché non è un romanzo cupo – a dispetto di quanto detto finora. Non lo è, un romanzo cupo, perché c’è felicità narrativa, c’è la gioia dello scrivere, dell’esprimersi. C’è la grazia dello scrivere.
Mi sia consentito riportare un solo frammento, uno dei tanti a capo, quasi fossero versi:
Facendo sussultare il giorno che reclinava I lampioni s’accesero di colpo. La luce bianca esitò, baluginò più volte e infine si fissò, in una certezza lunare che sarebbe durata tutta la notte.
Ma ce ne sarebbero mille altri.
Per Rossi la soluzione o è questa, arcadica, di un Metastasio ambientato in Grecia, o è quella della prosa sonora, manzoniana, con un ritmo che ricorda l’incontro del Padre provinciale con il Conte zio, o ancora quella dell’incipit della Montagna incantata.
Romanzo però anche eversivo sotto il profilo della lingua, come appare sia pure raramente in qualche callipagina. L’ultima pagina dell’epilogo ad esempio, che ricorda un Tristan Tzara surrealista e lirico, dolente, che cancella, ma con sereno distacco, se stesso, che si allontana da quell’identità artificiale per trovarne un’altra. Naturalmente non si sa, né sapremo mai, quale. Sappiamo però per certo che la ricerca non terminerà se non di fronte al rinvenimento, o al raggiungimento, di un’identità pacificata.
Potremmo dire che il romanzo di Rossi, muovendosi dall’empireo metafisico di De Chirico e Casorati giunge fino all’empireo dei dannati di Burri e Fontana, per acquetarsi da ultimo nel dolente sfinimento di Giorgio Morandi, il ritratto più vero del vero di Luciano Rossi. E potremmo, anzi possiamo, forse, allora, a questo punto, non immergerci tutti - naturalmente naufragandovi - nel mare leopardiano? Potremmo non immergerci naufragando in uno spazio sincronico, in un’attualità perenne del tempo, il tempo della poesia, che dopo Bergson e Croce, ma anche dopo Born, Husserl e Bohr, sembra essere la sola unità di misura - ben più vera del tempo storico - di ciò che, soltanto, dell’uomo vorremmo far emergere?
Questo è ciò che principalmente va detto della Scala di Shepard. Ma Rossi, come dicevo, non si è fermato lì, non si è fermato a Shepard. Ha scritto anche Il Vento e la Legge.
E anche Il Vento, così come la precedente prova narrativa, mi è piaciuto moltissimo, e quindi non ho forse la distanza giusta per esprimere su Rossi narratore considerazioni che valgano anche per altri lettori. È inevitabile ad ogni modo che si pongano comunque a confronto i due romanzi, Shepard e Il Vento. E allora dirò che ritengo il secondo ancora migliore del primo. So che Rossi non è d’accordo, ma io considero anche Il Vento, come la precedente, un’opera inscritta nel grande cerchio del nichilismo europeo. Con qualche specificità che caratterizza il lavoro del nostro autore. La specificità dell’assenza, come dicevamo.
Dunque tante cose già dette sull’autore parlando dello Shepard permangono, ed è giusto quindi focalizzarsi a questo punto solo sulle differenze, sulle sorprese, sulle novità. È dunque sulla forma di questa secondo romanzo che mi vorrei soffermare.
Sappiamo che sottoporsi di nuovo al giudizio dei lettori, dopo una prova riuscita, è operazione rischiosa per qualunque autore. E invece, addirittura, la seconda, potrebbe esser preferita alla prima: più matura, più articolata, più positiva. Con degli incipit folgoranti che ricordano D’Annunzio, che ricordano Thomas Mann. Con una scrittura raffinatissima che qua e là può ricordare Gadda, o Borges, o Camus. Ma può ricordare, per i suoi ossimori, i suoi aggettivi, Beppe Fenoglio, pur ricordando che quest’ultimo è scrittore meno raffinato e più dolente di quelli precedenti. E questo mi ha appunto sorpreso, perché in Shepard non c’era questa ricerca esasperata del linguaggio, a volte al limite dell’ermetismo, ma sempre perfettamente riuscita. Per questo ed altri motivi Rossi appartiene, come ho già detto, a quella corrente di scrittori europei, come i vari Mann, Joyce, Svevo, Beckett, dopo aver letto i quali non si può più scrivere (lèggere) come prima.
In Rossi ci sono forzature stupende, raffinatezze orfiche, accenti lirici sorprendenti. Come non rileggere quel passo dove lui scrive:
“L’aria intorno è d’argento, e d’argento son gli ulivi nebbiosi, e la polvere del sentiero e la terra, e i sassi, che tondi, o più spesso brecciati, e stanchi della notte, chiedono al sole di dar loro il mattino, finalmente, e il colore caldo dell’oro. Che se poi sarà ottone o rame, pazienza. Calpestata da sempre, la terra, da noi, si rassegna facilmente, e insegna la pazienza ai filosofi”.
Oppure ancora:
“Vecchiaia lenta, dorata. È autunno e il vento porta le foglie nella loggia gialla che con ampio sguardo abbraccia le Cordigliere. Qualcuna si posa sui fogli. Sì. È davvero autunno e lui l’allontana con quel suo gesto morbido e quieto. Intanto riflette. Quelle riflessioni inerti dei vecchi! Sta traducendo le Bucoliche in spagnolo. Ancora una volta!
E suonano alla porta”.
Forzature stupende, illuminazioni... e sotto, il finissimo velo dell’ironia, che lo tradisce, e che, trasportando il tutto sotto il segno della grazia e della levità, può far venire in mente Mozart; Mozart il divino.
Giuseppe Massari