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FRAMMENTI

LA SCALA DI SHEPARD (Frammenti dal primo capitolo)

Lo incontrai per la prima volta in un giorno d’estate. Lo ricordo di preciso. Era l’anno 2000.

Presentato da un amico comune, veniva a portarmi un manoscritto, per un’eventuale sua pubblicazione. Non più però un fascio di fogli come s’usava un tempo, quando ho iniziato questo mestiere avaro, ma semplicemente dei floppy, alcuni floppy, che levò da una piccola borsa e posò lì sul mio tavolo, dalla sua parte, sul bordo, vicino a sé.

Fino a quel momento, di lui, avevo solo scarse notizie. Riguardavano i suoi studi, il suo lavoro, gli scritti già pubblicati. Numerosi per la verità: e però saggi filosofici e psicologici. Quasi tutti adottati nella Università dove insegnava.

Quello che mi portava era il suo primo romanzo, disse. Anzi. Lui stesso non era nemmeno certo che fosse tale. Non sapeva però come chiamarlo... forse era “una polifonia di stili, di generi, di linee eterogenee”; ma non ne era sicuro. Immagino che sia stato  per questo suo spaesamento: sta di fatto che si presentò nel mio ufficio con un imbarazzo sorprendente, in uno studioso di valore riconosciuto quale lui doveva essere. Varcò infatti la soglia con un passo che mi stupì, e che mi attendevo più calmo e risoluto. Sembrava scusarsi, quasi fosse un intruso che osava entrare, non invitato, e senza le carte in regola, nel tempio sacro della narrativa.

Ero incuriosito. Di certo aveva un buffo aspetto.

Sui quarantacinque anni, astenico, nervoso, appariva preoccupato di farmi buona impressione, di farsi accettare, di piacermi.

Non ci riuscì. Gli psicologi, li immaginavo diversi. Più con un piglio da scienziati. E io ammiravo gli scienziati.

Invece lui no; stranamente apprezzava di più i narratori. Era dunque un complesso d’inferiorità a metterlo a disagio? Forse sì, ma non solo. Cauto, introverso, riservato, dava anche, non saprei dire perché, l’impressione indefinibile di nascondere un segreto. E non mi veniva da pensare a un segreto professionale.

Di sedersi, per esempio, l’ho dovuto pregare. Due volte. Magro e quasi denutrito, forse non godeva di buona salute e buona digestione. Solo gli occhi erano vivaci. Mobili e intuitivi, anche se con una punta d’ansia e d’allarme.

- Le ho portato il mio lavoro – esordì. – Gliene ha parlato, F*, non è vero?  Si tratta all’incirca di trecento pagine... son quattrocentoventi cartelle, per la precisione. Sa, è il mio primo tentativo in questo genere. Ma questa volta... questa volta avevo una storia, credo una curiosa storia, e vorrei che non andasse perduta. Per la verità all’inizio era solo una ricerca scientifica...

[...]

- Qui... (e si fermò; accennò ai floppy posati sul tavolo e vi mise sopra una mano, quasi a proteggerli da chissacché)... qui, riprese, la storia qui c’è tutta, ma deve essere ancora ripulita, bilanciata, armonizzata... mi capisce?

 [...]

E via di questo passo.

E ancora non toglieva la mano dai floppy.

Mentre tamburellavo con la matita, spazientito, per fargli intendere che avrebbe potuto essere più essenziale, ero afflitto dall’idea che il mio interlocutore fosse invincibilmente noioso. E cominciavo a temere che il suo scritto non fosse più scorrevole di lui.

Sicché ...

- Mi lasci un recapito telefonico, un biglietto da visita; la richiamerò - gli dissi a un certo punto, interrompendolo.

- Anche se non le prometto di farlo subito, lo leggerò senz’altro, il suo lavoro. Tuttavia, quanto alla pubblicazione ... sì, insomma, per quella vedremo. Qui ci sono ancora tante cose che attendono da tempo – e la sua mano passeggiò nell’aria carezzando con ampio gesto pile di manoscritti.

- Cose già lette e approvate. Fino al 2006 non è possibile nemmeno pensare di... spero mi comprenda, professore. E però lo lasci... lo lasci. Anche se per i miei commenti, le toccherà aspettare. Ma non sei anni naturalmente; i miei commenti glieli mando prima.

Non replicò nulla. Forse gli facevo un po’ paura; e senz’altro era timoroso del mio potere di opporgli il gran rifiuto o di accordargli il riconoscimento ambito: che poteva dirsi anche lui un narratore.

Nessun biglietto da visita.

Tolse dalla tasca un foglio gualcito, vi scrisse il suo numero e me lo porse. Era quello di un cellulare. Sapeva che il colloquio era finito e si levò lentamente da sedere. Se ne andava malvolentieri; si capiva.

Sorrise con una mestizia nervosa: - Lo dice sempre anche David che sono prolisso.

Aveva un’aria  stanca.

Non gli risposi; non gli chiesi nemmeno chi era David. Questo mestiere mi ha reso un po’ orso. A poco a poco. Ero più gentile da principio.

 

Il manoscritto, non lo lessi subito. E se infine lo feci, qualche mese più tardi, fu solo per timore che il mio amico me ne chiedesse conto.

Non avevo fiducia nello scritto di quella persona.

Invece, con sorpresa, trovai nella sua storia qualcosa che mi avvinse.

[...] 

Insomma, a un certo punto qualcosa cambiava, prendeva un’altra piega. E mi costringeva a riconsiderare il tutto.

Da prima non sapevo che cosa fosse. Mi aggiravo ingombrante, e fastidioso a tutti, negli stretti uffici dei collaboratori; il sigaro spento e un’insolita perplessità. Per fortuna nessuno di loro mi chiese cosa avessi. Non hanno tanta confidenza, corpulento e massiccio come sono. Ma mi guardavano stupiti, si vedeva.

Mi prendeva, quella storia, ripeto; e m’inquietava.

Cominciai così a riflettere se non fosse davvero il caso di pubblicarla. Ci avrei rimesso fin le braghe, si capisce. Non ci sarebbe stata nessuna corsa agli acquisti, certo, lo sapevo, ma forse il libro... i suoi venticinque lettori ce li aveva. 

[...]

Perché c’era del rigore in quelle pagine. Nessuna concessione a spazzature esoteriche. E questo mi piaceva. Per concludere, infine mi decisi; anche se, per prudenza, lo avrei pubblicato a bassa tiratura.

[...]

Preparai un contratto favorevole all’azienda e richiamai l’autore, che mi rispose con una voce agitata – peggio della prima volta – e quasi sorpreso, o deluso?, di sentirmi. La sua voce era quella di una persona appena sobbalzata sulla sedia al suono del telefono e che al momento non si fosse ancora riavuta.

Il contratto editoriale lo sottoscrisse con una forte e silenziosa esitazione, cosa che me lo fece, se possibile, apparire ancor più strano che al telefono. Non lo lesse nemmeno, il contratto; sembrava, più che dubbioso, spaventato: non per le clausole contrattuali, che evidentemente non gli interessavano nemmeno, ma per qualcosa che non capivo... insomma, non pareva più interessato alla pubblicazione. Lo trovavo molto cambiato; era, se possibile, ancora più pallido e smagrito. Comunque alla fine firmò e ci salutammo.

“Alla fine”, ho detto?

Quale ironia! In realtà eravamo appena all’inizio.

Il bello, anzi il brutto, doveva ancora venire. Accaddero infatti delle cose che cambiarono tutto. Non posso ancora spiegarvi perché, ma quella che leggerete non è purtroppo la storia che lui mi consegnò e io lessi e decisi di pubblicare. E ora che tutto è cambiato, i motivi per pubblicare sussistono ancora, ma sono divenuti tutt’altri.

Come altra è diventata la storia.

IL VENTO E LA LEGGE. (Frammenti da Se questi sono uomini)

 

Questi campi di scelte colture cadranno in potere

di un brutale soldato: dei barbari avran queste messi.

E per costoro noi spargemmo di semine i campi!

                  

Virgilio, Le bucoliche

 

 

Gentile Signore,

anche se il mio nome è proprio J. L. Borges, e questo fa trasalire, Lei lo sa bene, ogni amante delle buone lettere, devo dire che, ahimè, io non sono lui... Purtroppo sono soltanto io. Lei dunque mi ha preso in cambio. Sappia che Borges è un nome comune in Argentina e che, dovendo fare io di tutto per evitare questi equivoci, ho il mio bel da fare. Purtroppo, inoltre, non è facile: sono quasi un suo sosia. Devo portare come lui gli occhiali neri, anche se la mia quasi cecità ha ben altre cause, che preferisco lasciar sepolte nella memoria del passato.

Sono figlio di agricoltori, e anche se non eravamo del tutto poveri, libri in casa nostra non ce n’erano. Fu un grande dolore per me bambino. Sapevo che esistevano e che contenevano tesori favolosi. Per questo da grande ne acquistai una quantità innumerevole. Tanti quanti le mie povere risorse mi consentivano.

Almeno in fatto di libri, al vero Borges, a Jorge Luis insomma, cercavo in silenzio un po' di somigliare: compravo tutti i libri che gli sapevo cari, quelli degli autori che lui citava.  Talvolta dovetti arrossire. Più d’una volta capitò che il libraio mi dicesse che l’autore da me richiesto non esisteva. Mi pare addirittura che sorridesse malevolo: mi sapeva caduto nella trappola. Ma alle derisioni io reagisco con tenacia.

Sebbene i mezzi in famiglia non mancassero, i miei studi furono rallentati dal disinteresse familiare. Diventai maestro elementare nel ‘36, a ventun anni, e solo allora si arresero concedendomi di frequentare l’università in Europa. Anziano, ora godo di un ozio povero e piacevole in una casa che ai visitatori appare quasi una biblioteca. Non riuscirò a leggere tutti i miei libri prima di morire. Questo mi dà sicurezza: non ci sarà mai più un giorno di vera povertà nella mia casa. Mai, finché possiederò un libro ancora da leggere per la prima volta.

Oggi devo riconoscere che anche la povertà di libri dell’infanzia non era povertà vera, non era miseria. C’era tutto il cielo che volevo, c’era il sole, c’era la pampa. I cavalli. Devo riconoscere che quella fu una risorsa imperitura. Anche se tornassi povero di libri come allora mi adatterei a ciò senza dolore.

E così ora lei sa. Forse la mia vanità si è indebitamente dilungata. Avrei potuto semplicemente dire che non è a me che deve chiedere quel manoscritto, sebbene anch’io in un’occasione mi sia lasciato tentare dalla scrittura. Ma fu una vicenda necessaria: niente che abbia a che fare con la letteratura, niente che possa interessarla.

Per qualunque cosa tuttavia in cui io potessi servirla può trovarmi in Calle de la Libertad, 23 -  Buenos Aires.

Mi creda

Suo Javier L. Borges

B. A., 16.03.1985

 

Gli vidi cadere questa lettera a pochi passi dall’imbarcadero, ma lui con passo svelto, non impedito a ciò dall’età avanzata, già era sul traghetto e sparito alla mia vista.

Lo rincorsi, gli gridai: signore! C’era anche frusciar di vento e lui non mi sentì; e poi già la barca era partita. Così gli portai quel foglio di persona e lo conobbi.

Aveva fame d’incontri. Non insegnava più, era in congedo da un po’ d’anni. Mi trattenne più di quattro ore e volle che io leggessi la lettera davanti a lui. Credo che l’abbia fatto perché questo gli permise di mostrarmi la sua biblioteca. La lettera ne parlava. Fece conto su questo. Carezzava i libri, ad uno ad uno. Di ognuno mi diceva qualcosa.

Ma su due, non credo che si sia trattato d’una mia impressione, soffermò più a lungo la mano: uno conteneva le opere complete di Ovidio in latino. L’altro era un Primo Levi: ricordi di prigionia. Se questo è un uomo, diceva il titolo. Non lo conoscevo: un italiano forse, almeno dal nome.

ECHI LONTANI (Frammento da Il tenente Weinrich)

Quando il capitano Nikolaj Nikolaevič varcò la piccola porta del palco di famiglia il sipario si era appena levato e il direttore stava già stringendo la mano al violino solista. Era dunque in ritardo, il giovane ufficiale, e la madre lo avrebbe rimproverato. Non c’erano scuse per questa caduta di stile: lui aveva cenato per tempo assieme alla madre e alla sorella, ma poi non era salito in auto con loro; aveva detto che li avrebbe raggiunti subito dopo e invece s’era attardato in biblioteca con una wodka e alcuni spartiti, e s’era perso con alcuni accordi al pianoforte.

Ma non era, quello, il momento di distrarsi: era di scena infatti quella sera al Teatro Bolscioi  di Mosca il grande Jozef Choiwa, il miglior violino di Polonia. E anche Nikolaj lo amava, la madre lo sapeva bene; ma si perdeva quel ragazzo, che divideva le sue passioni fra la musica e l’arte militare. E lei poi non apprezzava per nulla il vezzo di arrivare a spettacolo iniziato, tipica dei giovani ufficiali snob. Per non aggiungere, ma questo era un altro discorso, che lo vedeva così poco adatto alla guerra, il suo figliolo!

Per fortuna la guerra non c’era e Nikolaj era di stanza nella caserma *** di Mosca in quel marzo del ‘38, sì che spesso aveva occasione di rientrare a casa per la cena. E mai capitava che dopo aver pranzato non suonasse per loro qualche aria di Chopin.  A teatro poi, lui non mancava mai d’andare, soprattutto se, come quella sera, vi erano artisti di così alta fama.

In quel concerto Choiwa superò se stesso. Le sue sonate erano però pervase, ancor più del consueto, da una grande e struggente malinconia. Qualcuno nel foyer disse che da molti mesi in Polonia vi era un’atmosfera plumbea di tristezza, come se la patria fosse minacciata. Dio non volesse, ma si temeva un’invasione tedesca, per l’autunno o per la prossima primavera.

E quella sera era il 16 marzo.

Alla fine Nikolaj applaudì con vigore: l’esecuzione era stata perfetta. L’anima di quell’artista pareva superiore ad ogni cosa, il suo volto indifferente non sorrideva mai, come se non fosse di questo mondo. Come se il suo cuore di ebreo fosse di pietra. E anche il suo corpo pareva di pietra, se l’archetto non percorreva le corde. Solo quando le prime note celestiali si diffondevano nel teatro, il suo corpo mutava e prendeva a fondersi con la sua protesi, prima assente, assumendo configurazioni irriconoscibili. Il tronco, prima rigido, si scioglieva; la postura si faceva morbida sotto la carezza di un’armonia che la dissolveva e scomponeva, e la ricomponeva infine in un’immagine prima impensabile.

Quella sera a Mosca Chojwa aveva inscenato ancora una volta questa metamorfosi e a Nikolaj era apparso trasfigurato. Era la prima volta che lo vedeva e non volle perdere di vista per un solo attimo la maschera celestiale del violinista e il suo viso andò imprimendosi nella sua mente a fuoco mano a mano che i minuti passavano.

L'ANIMA E I GIORNI (Addio, 2009)

 

È qui che finisce il mio sentiero

(e del tuo io non ti so dire)

a pochi passi dalla porta chiusa.

 

Anche il pendolo più non batte l’ora

a dirmi che oramai tutto è cessato.

 

Tutto s’arresta innanzi a questo muro

(da un groviglio di spine il varco è invaso)

e all’altro, nella lontana piana maritale.

 

A entrambi una marcia putredine di foglie

dà frescura di tomba, e musco,

e pace

domani

forse.

 

Niente di vivo

ormai più a te risuona

ed è raro che nel pieno mezzogiorno

(se ancora esiste il cielo)

trascorra il cirro che sovrasta il monte.

 

Quest’ora, e tutto, è immobile silenzio

svanita ogni memoria ed ogni volo.

Quest’ora, e tutto, è inalterato muro .

Altro non v’è.

 

Il nostro andare finisce proprio qui

con questi sterpi ove la via si rompe

ove l’usata fontana si sdirupa

ove si sgreta il forno

che ieri ancora il fico sorreggeva.

 

Lo sguardo spento oltre di te non va.

 

E non vedo la stanza del miele

e la sua sorte.

UN COUP DE DES... 

Ai tempi del re Salomone, il Saggio, il Potente, vivevano, ormai nella loro piena maturità, in due città vicine a Gerusalemme, due fratelli gemelli. Quando erano ancora giovanetti i loro visi si rassomigliavano, ma le loro anime erano già assai diverse fra loro. Uno era tutto desideroso di accumulare, nella sua vita, astuzia, ricchezze, armenti e servitù. L'altro era poeta, perduto per il mondo, rapito dal silenzio dei tramonti, dalle carezze dei venti, dalla frescura delle piogge, dal verde delle foglie che stormiscono nella sera. Uno divenne un ricco mercante; l'altro un pastore di pecore. Sulla maschera dell'uno si dipingeva, ogni giorno di più, l'ombra del sospetto, la fissità della paura, la ruga dell'inimicizia, il fango del rancore. Sul viso dell'altro si stendevano invece, come un velo di luce, il rosa della sera, le stelle grandi della notte chiara, la luce serena di una nuova alba, il canto dei pensieri profondi, la rotondità della gratitudine…

Sul finire della loro giovinezza, trascorsa all'ombra della casa paterna, essi si erano separati e non si erano mai più rivisti. Ma il destino aveva già preparato il loro incontro ed essi si rividero un giorno, all'epoca di questa storia, nel mercato di Gerusalemme. I loro visi erano diventati profondamente diversi. La primavera, bella ovunque, ma splendida a Gerusalemme, mentre accendeva il cuore dell'uno, scivolava, non vista, sugli occhi avidi e appannati dell'altro. Inutili al suo sguardo erano le bianche tuniche profumate che cingevano gli aranci e i delicati accenti rosa che sfumavano sui meli.

Lo stesso giorno del loro incontro, un uomo grasso e untuoso, sul cui viso all'ombra dura e spietata della paura e al gravame rabbioso della materia si aggiungevano tutte le testimonianze dell'avidità e degli anni mal vissuti, si presentò, col terrore negli occhi, davanti al re Salomone ed ansimando gli disse: "O potente, tu che tutto puoi, salvami, ti supplico; poco fa ho visto l'angelo della Morte che mi ha fissato cattivo e così ora temo per la mia vita". "Contro l'angelo della morte non posso fare nulla", rispose Salomone. E proseguì: "Egli è mandato da Dio e in questa sfera Dio solo è magistrato e potente. Io posso comandare solamente ai venti, alle piogge, agli uomini". "Comanda allora al vento che mi porti via di qui, lontano dall'angelo della Morte, onde egli non mi possa trovare", supplicò l'uomo, che nella vita aveva sempre e solo coltivato opportunità, astuzie, intrighi ed amicizie potenti, ma che con la dura verità della morte non sapeva come negoziare. "Bene. Ordinerò al vento di portarti dove tu desideri", disse Salomone. E così fece. Il vento sollevò allora l'uomo e lo portò in una lontana plaga dell'India come lui desiderava.

Quel giorno trascorse sereno a Gerusalemme e che il dì appresso Salomone, pensando di poter fare qualcosa di più per quel poveretto, chiese all'angelo della Morte di venire alla sua reggia.

Quando l’angelo fu davanti a lui, Salomone gli disse: - Ieri è venuto da me un uomo spaventato, dicendomi che tu lo avevi guardato con interesse e cattiveria, così lo ho aiutato ed ho chiesto al vento di portarlo lontano. Ma tu dimmi; perché lo hai guardato con cattiveria?-. - Non è così - rispose l'angelo. - È stato soltanto lui a guardare se stesso con cattiveria. In verità io lo ho guardato con sorpresa. Infatti avevo ricevuto l'ordine di prenderlo con me la sera stessa in una remota plaga dell'India e quando l’ho visto qui a Gerusalemme, solo poche ore prima del convegno, mi sono chiesto come avrebbe potuto egli raggiungere il luogo prescelto nell'ora voluta per lui. Ad ogni buon conto questa questione non era compito mio ed io mi sono recato ugualmente e rapidamente nel luogo e all'ora convenuti. Ho notato con sorpresa che egli si era presentato, non so come, puntuale al suo appuntamento. Senza chiedermi altre cose, ho eseguito allora il mio compito.

Il racconto di Munal dice che l’angelo non aggiunse alcuna parola e si congedò dal re. Narra solo che molti giorni dopo un uomo tranquillo, che la gioia aveva reso innocente e che l'innocenza aveva reso gioioso, si presentò al re Salomone e gli disse: - O buon re, poche settimane or sono ho incontrato mio fratello che non vedevo da molti lustri. Non puoi immaginare con quale stretta al cuore ho visto come la ricchezza lo aveva duramente provato. Nonostante ciò egli voleva ancora nuove ricchezze e mi aveva confidato con euforia che da lì a poco stava per procurarsene altre e più grandi. Mentre stavamo parlando però io fui distratto dalla vista di una persona che da pochi passi mi stava guardando con tranquillo stupore e dolce meraviglia. Era l'angelo della Morte. Ho pensato che volesse invitarmi a seguirlo. Io avrei dovuto lasciare Gerusalemme di lì a qualche ora, per fare ritorno alla mia casa, ma nella mia lunga vita ho imparato a leggere i messaggi del destino e ad obbedire. Se egli mi guardava con dolcezza, ho pensato, questo significava che io dovevo restare qui a Gerusalemme in attesa di altri suoi segni. E ora ho saputo da alcuni mercanti giunti da poco nella tua grande città che il mio povero fratello è morto nella lontana India. Forse questo è proprio il messaggio che aspettavo dall'angelo, ma da solo non lo so interpretare. Ora, o buon re che sei più sapiente d'ogni altro uomo, aiutami tu a capire questo segno.

Il re dopo un breve silenzio, propose all’uomo di tornare da lì a qualche giorno. “Certamente questo è il saggio fratello di quell'imprudente”, aveva arguito Salomone che, in cuor suo, aveva già deciso di parlare ancora una volta con l'angelo. - Non ti avevo raccontato tutta la storia in quanto non mi sembrava ti potesse interessare - disse l'Angelo quando fu di nuovo dinanzi al re. - Per la precisione il buon Dio mi aveva detto di prendere con me solo uno dei due fratelli, dicendomi che avrei trovato soltanto uno dei due nel luogo convenuto. Quello sarebbe stato il prescelto. Dunque li ho guardati entrambi con sorpresa. Perché uno dei due non si trovava già in India nel luogo convenuto per il giorno appresso? Sbagliava dunque Dio dal momento che nessuno dei due poteva essere in India nell'ora stabilita? 

“Potete allora considerare Senior, Adelphi e me stesso come tre ottave di un canone eternamente ascendente. A noi è infatti accaduto come nella scala di Shepard, in cui, mentre una voce esce dall’alto, un’altra entra dal basso, e non permette che una vita si chiuda nell’oblio e la sua musica finisca”

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