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LA SCALA DI SHEPARD. VOCI  CRITICHE  E  RISPOSTE DELL'AUTORE

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Giovanna Nicaso, psicoterapeuta 

   Essere uscita dalla lettura del libro di Luciano Rossi è stato per come uscire da un grande palazzo, pieno di stanze, in cui è facile perdere l’orientamento, che ti stupisce continuamente per le prospettive, gli angoli, gli ambienti, e che mi ha rammentato l’esplorazione eccitante ed amorosa d Angelica e Tancredi del grande palazzo avito di Donnafugata, fra le pagine più belle del Gattopardo di Tomasi di Lampedusa.

    Un libro che prende lentamente, con un ritmo all’inizio, per me, difficile e sospeso… come non sapesse che direzione vuol prendere, una serie di spunti tutti interessanti, frammentati, rimandi e sospensioni.

    Ad un certo punto parte e incanta, ed ogni pagina alcuni concetti memorabili, che più volte mi hanno portato a rileggere, e si dipana in un crescendo assai toccante.

   Ci sono pagine bellissime, inframmezzate qui e là in un’opera che è comunque scritta assai bene, un uso sapiente e consapevole della lingua italiana, mai una sbavatura: pagine bellissime quelle dove l’autore parla di sé e dei suoi amori, dei suoi luoghi, di quello che lui trattiene nella memoria degli oggetti che gli sono cari, i particolari, le atmosfere… ovviamente non parlando mai di sé stesso.

    Poi prende, incalza, attrae ed appassiona… non tanto la trama del giallo letterario ed esoterico quanto quella della ricerca senza fine, il tema fondante della condizione umana, e si dipana fra psicoanalisi e fisica, filosofia e storia, accademia e vita comune, in un assai riuscito mischiarsi che non è confusione ma appunto, “sinfonia” rappresentativa dell’orchestra della vita.

   Nel libro c’è anche, a mio avviso, molta tenerezza: per l’ingenuità del protagonista, per la sua vana e coraggiosa ricerca, alle prese con l’impassibile Daimon che governa ogni cosa, anche se tutto fa pensare il contrario, i numeri e la fisica a cercare di ordinare l’universo, la ragione che cerca di offuscare il sogno e la visione, inutilmente.

   L’ultima pagina, la fine, come uscire dal castello, un senso di tristezza malinconica e trasognata per un’avventura che non sarà più la stessa, per quanto sia possibile ripeterla o affrontarne altre.

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Giuseppe Martini, Gazzetta di Parma, 2007

    Rossi è senz’altro consapevole dell’ispida lettura che comporta il suo meccanismo narrativo, quindi non accetta compromessi né finge l’innocenza della fantasia, la blandizie della scrittura ironica o addirittura l’arrendevolezza alle trame secondarie. Già il riferimento alla Scala di Shepard – nota illusione acustica prodotta dalla simultanea esecuzione di due scale a distanza di un’ottava, l’una in volume decrescente l’altra crescente, che sembrano produrre una scala ascendente infinita - è un’aperta sfida al lettore che dovrà decrittare nella torturata esperienza conoscitiva di Adelphi le coordinate di una delirante organizzazione della realtà che sembra continuamente sfuggire nel nulla delle apparenze.

     Per questo ne ratifichiamo l’inafferrabilità senza accennare alla trama, limitandoci a dire che il thriller che ne fa da sfondo non è una sovrastruttura ma un inevitabile destino della conoscenza: l’esperienza del lettore con la progressiva acquisizione sapienziale del protagonista, o addirittura con lo stesso tormento dell’editore che ne raccoglie il testo destinato a sperdersi in frammenti (Rossi non rinuncia al meccanismo delle scatole narrative), non può non rivelarsi in contemporanea con la sua lettura. E proprio per questo, visto che sul mistero scientifico della contemporaneità si basa il rovello del protagonista (la scala di Shepard, come certe illusioni ottiche dei disegni di Escher, è basata sulla contemporaneità), val la pena di attirare l’attenzione su una scrittura che – e solo Rossi potrà rivelare se il meccanismo è consapevole o inconscio – continuamente allude a ritardi, a rinvii e imprecisioni temporali e mnemoniche, a distanze nello spazio: solo nelle prime cinque righe se ne contano almeno sei, ma saranno seimila sparse nel romanzo. Che sia una chiave ermeneutica (o malizia intellettuale?) per questo curioso, coltissimo romanzo, da leggere con la matita per gli appunti, sulla frustrazione della conoscenza?

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Gino Reggiani, maggio 2007, lettera

    Ho terminato la lettura del tuo libro: confermo il giudizio, che ho già espresso a te ed a quanti altri ho potuto raggiungere, è veramente bellissimo, attrae e induce ad una lettura attenta, concentrata, appassionata.

    Raramente a me, che sono un lettore assai distratto e poco costante, è capitato di iniziare e concludere tanto rapidamente un’opera che non fosse direttamente legata ai miei interessi del momento e anche questo mi pare un segnale non trascurabile della sua qualità e della sua attrattiva.

    Inoltre devo dire che i temi così complessi che tu hai affrontato, sono stati svolti con una chiarezza espositiva ed un’eleganza narrativa, veramente degne di uno scrittore consumato, in una forma che non mi è parsa affatto oscura o complicata, ma invece molto diretta, immediata, e, al tempo stesso, altamente evocativa.

    Ti chiedo scusa se mi sono lasciato andare a giudizi espressi  in termini forse un po’ scolastici, ma trent’anni di permanenza su una cattedra al liceo, hanno evidentemente lasciato il segno: quel che conta è che essi siano sinceri e meditati, del tutto scevri da ogni superflua piaggeria.

Provo ad azzardare ora qualche annotazione su quel che io ho trovato più importante, anche se è evidente che il tuo libro meriterebbe certamente un’analisi più meditata ed approfondita.

    Innanzitutto devo dire che ho incontrato in questo libro l’accettazione gioiosa della vita e non la tristezza ed il pessimismo e di questo mi compiaccio nel segno di quello spirito autenticamente nietzscheano che probabilmente ci accomuna e che mi ha portato a rintracciare qua e là l’eco felice di certe pagine dello Zarathustra.

    Mi ha poi colpito la tua grande capacità di miscelare con sapienza e di tenere efficacemente assieme diverse suggestioni di grande spessore culturale, dalla analisi junghiana alla fisica quantistica, alle espressioni tragiche dei greci, agli spunti fecondi di riflessione filosofica.

    Ma naturalmente quel che affascina di più è la ricerca del segreto di Sofia, il cammino impervio verso la sapienza che è insieme anche fonte di salvezza: su questo ci vorrebbe un tempo - probabilmente infinito! come tu stesso hai bene dimostrato - per discutere e forse sarebbe anche stimolante, in quanto io potrei rappresentarti un diverso punto di vista frutto di altri percorsi esistenziali e culturali che potrebbero essere utilmente confrontati con i tuoi.

    Qui però il discorso sarebbe davvero troppo lungo e traboccherebbe dai legittimi limiti di una comunicazione sinceramente e affettuosamente partecipe del grande valore della tua Scala di Shepard.

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Francesca Niccolai,  Aurea Parma, 2007

   A Fileti, in un sud arcadico che riesuma il mito della Magna Grecia, dove la Filosofia non era disgiunta dalla Fisica, ed immanente e trascendente si muovevano all’unisono; a Fileti di oleandri e mare, sulla terrazza dell’Ateneo imbiancata dal sole, due figure, il maestro e l’allievo, sciolgono le parole dei loro incontri numerosi, abitudinari nel sudore del mistero: svelare il principio che muove le cose, capire la Sincronicità.

    La ricerca non può arrivare ad una conclusione, la ricerca trova il suo motivo d’essere in se stessa: cercare. Sulla tensione della materia narrativa, come sulla vita dei protagonisti, tornano a riproporre il loro affannato girovagare le voci di chi, in passato, qualcosa aveva già intravisto: Einstein con Bell e Aspect, Jung con Pauli, Goedel con Escher e Bach... e la voce dell’autore che non nasconde la fatica del suo viaggio. Come Adelphi ha ereditato il mandato di Senior, suo maestro, così Adelphi dovrà cedere il testimone ad Ismaele, suo allievo, perpetuando il disegno armonico della Scala di Shepard, in cui la voce prosegua laddove la precedente termina. Ma i canoni, nella dimensione metanarrativa su cui il romanzo poggia, sono molteplici e anche sincronici, ciascuno proiettato verso il segreto dell’universo. 

    La Sincronicità è un mistero e in quanto tale è pericolosa, è un «evento iniziatico» da non svelare; la narrazione trae da questo carattere la sua misterica, sviluppata però con gentile bilanciamento, senza nulla concedere alle mode... dei codici leonardeschi. Indagini di polizia, diari, appunti che scompaiono e simboli che appaiono, riti massonici, sogni, visioni, ma tutto ciò è solo una parvenza.

    Dell’autore si conosce la predilezione per Gadda e per i labirinti borgesiani, entrambi si vedono in filigrana. Il primo soprattutto all’inizio, dove il pastiche di forme, generi e voci, dall’epistola al teatro, al diario, impongono una variazione di punti di vista sul medesimo episodio, così da prolungare e tendere al limite l’attesa del suo sviluppo. Questa tecnica crea suspense ed è funzionale all’introduzione del tema della ricerca del sapere, è qui che l’indagine ha il suo inizio. Il secondo riferimento, Borges, resta a sorreggere l’intero impianto della storia, quella di Senior che incrocia Adelphi, che incrocia Ismaele, e nel contempo sostiene l’impianto narrativo dell’autore, che incastra uno nell’altro e dopo l’altro i pensieri e lo sguardo dei protagonisti.

    Resta infine una perla, troppo preziosa perché troppo rara, perfetta nell’ambientazione arcadica: sono i lacerti teatrali elargiti nel testo a distanza di tempo e di spazio da ricomporre a mosaico, per scoprire il disegno che custodiscono. In questo scenario parallelo i nostri antichi dei tornano a parlarci di noi, ad intervenire nella nostra storia, a darne finalmente un senso!

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Luciano Rossi (risposte)

    Io ero un saggista, non avevo alcuna idea di come si scrivesse un romanzo; a scriverne uno non ci avevo mai pensato. Avevo quindi una forte esitazione a pubblicare il mio primo tentativo. Come dice Calvino, il primo romanzo è una grande occasione, il primo è il solo che conta, e forse bisognerebbe scrivere quello e basta, perché da lì in poi i giochi sono fatti. Quindi il primo libro sarebbe meglio non averlo mai scritto, in quanto purtroppo ti definisce e lo fa in una fase della tua evoluzione letteraria in cui sei ancora lontano dall’essere definito. 
 

Giuseppe Massari, Aurea Parma, 2009

    Da oggi Luciano Rossi, appartiene ad una non folta schiera di scrittori che  fortunatamente contribuiscono a rendere impraticabili, o a distruggerli proprio, i vecchi consolidati, correnti e pur indispensabili sentieri ermeneutici percorsi fino a quel momento da chi era costretto – bisogna pur vivere – sia a interpretare sia a collocare sul piano delimitato, appunto, da familiari assi cartesiani l’operazione della scrittura. 
E quando questa rivoluzione avviene – in realtà poche volte – ci troviamo di fronte ad Autori autentici che mutano la nostra stessa abituale pratica di scrittura o lettura. Così che Luciano Rossi usa La scala di Shepard per inventare e circoscrivere un territorio - ma hic sunt leones - all’interno del quale nessuno, che vorrà scrivere o meglio che vorrà leggere un romanzo, potrà evitare in futuro di entrare. Un territorio che nessuno potrà ignorare.

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