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A4. Il Doppio, padrone del vero.

In una lontana introduzione (a me stesso), una volta osai queste espressioni:

“Nessuna parola m'è più cara di quella di Montaigne: perché anch'io, come lui, mai ebbi, scrivendo, escluse poche opere destinate all’uso universitario, alcun fine che non fosse domestico e privato. Estraneo poi, come sono, allo sfacelo delle lettere, e parlo qui della mia prosa soltanto, mai tenni in considerazione alcuna né il facile svago del lettore, ossia la leggerezza dell'opera, né la diffusione dei miei libri, ossia una possibile notorietà: le mie intenzioni non furono mai volte a questo scopo. Piuttosto dedicai ogni cura dello scrivere alla solitaria lettura di familiari e sodali. E semmai di qualche raro, e improbabile, sconosciuto estimatore che, guidato solo dal caso, si scoprisse affine al mio stile singolare e alla mia singolare visione del mondo.

Ciò che, scrivendo, sopra ogni cosa desidero è che si conservi l'immagine vera di quello che sono stato, la traccia fedele di un'anima, la mia, che sempre si nascose, e il fedele sembiante di quell'unica scrittura che mi è stato possibile amare. Ritratto di me che per riservatezza o pudore, o per amor di silenzio, non potei altrimenti mostrare.

Senza i miei libri, tanto, troppo, resterebbe di me sconosciuto. Alcune cose le ho dette lì, e lì soltanto, nella pagina scritta. Anticipo al lettore che nel testo troverà giustificato il mio silenzio”.

Posso solo dire che, allora, era mia intenzione cosciente esser sincero. Ma è ovvio che era solo la parte virtuosa di me a parlare. La dichiarazione che “mai ebbi, scrivendo, alcun fine che non fosse domestico e privato”, sottoposta al vaglio dell’inconscio, mi appare oggi non solo dubbia, ma sicuramente falsa. “Il Doppio”, dentro di me desiderava essere visto, scoperto, applaudito. Questa presenza oscura, con cui in seguito ho avuto un franco, a tratti drammatico, sempre doloroso, confronto, me ne ha infine resa ampia confessione.

La mia parte etica, che presiede alla volontà, non mutò comportamento, nemmeno dopo la confessione e il verdetto; ossia continuò a nascondersi o almeno lo credette. Del resto, viste le mie azioni editoriali di poi, dovremmo credervi. L’assenza di presentazioni in vivo dei miei due romanzi, tranne due sole, le uniche imposte da vincoli editoriali, rasserenò la mia coscienza. Ma era vero che mi nascondevo completamente? Perché non consideravo la mia massiccia presenza in Rete, a volte spudorata, che sempre rimandava ai miei siti o blog? Perché la consideravo solo (in verità è anche questo) un servizio filantropico di rassegna stampa, di selezione di testi, di segnalazione di perle poco note? Perché lo vedevo un servizio reso ai miei simili, più impegnati di me, da me ormai pensionato che, oltre a porgere un modesto dono sincero, colmavo nel contempo la mia solitudine? Se così davvero fosse, perché allora ci infilavo dentro, e così spesso, anche i miei testi?

Indubbiamente non ero così “pulito”, non del tutto. Noi siamo doppi e in conflitto: Borges, con migliori parole, dice ciò che ogni psicoanalista sa, ossia che ogni uomo è due uomini e se uno ruba, l’altro dà del suo. Il Doppio, dentro di me, dunque non avrebbe disdegnato la gloria, anche se il suo indolente avversario, avutala, l’avrebbe aborrita. Non avrebbe mai presenziato ad un evento che lo riguardasse. Nemmeno se fosse avvenuto sotto casa. Posso affermarlo con sicurezza, perché una volta questo è accaduto ed io non sono andato. Ed ecco che la Rete ha per me questo vantaggio: mi permette di non andare. Sono un cervello febbrile impiantato in un corpo inerte. Paura del pubblico? Decisamente no. In passato sono stato conferenziere e non privo di apprezzamenti. Se fossi costretto a un bilancio direi che parlare in pubblico è la cosa che in vita mia mi è venuta meglio. Mi accadeva questa cosa strana: quando io, che scrivo con tal fatica e sì poca chiarezza, avevo occasione di abbandonarmi alla passione della voce, mi scioglievo al fluire, qual conquiso turacciolo, direbbe Gadda, verso valle, verso dove la corrente chiama. (continua, ché c’è dell’altro da dire e da scoprire)


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